LDD 01 | Una reggia nuragica di Vincenzo Latronico

1.

      Sono stato invitato a scrivere un testo per il Laboratorio del Dubbio, uno spazio artistico di Torino concepito come un generatore di collaborazioni. Il mio intervento, questo testo, nasce da una collaborazione con l’artista Sara Enrico e il musicista Nicola Ratti. La prima forma che ha preso questa collaborazione è stata una mostra (ma era un’esposizione informale, effimera, a cui si adatta meglio un termine come “open studio”), svoltasi il 26 febbraio 2016 in una grande stanza cubica nei pressi della ferrovia, alla periferia di Torino.
      A destra dell’ingresso, una lavagna luminosa era appoggiata in terra, ricoperta da un gomitolo di una retina di filamenti di plastica; la luce, filtrando, proiettava sulla parete una cupa coltre di volute nere, di forma vagamente rettangolare – metà Jackson Pollock, metà Gustave Doré. Sulla parete opposta era appesa una stampata altrettanto cupa di un fotogramma dal Casanova di Fellini, in cui il protagonista, su una zattera di fortuna, solca un mare fatto di sacchi di plastica nera agitati ritmicamente a mo’ di onde.
      Poco più avanti, il pavimento quadrato della stanza era tagliato diagonalmente da una fila di piccoli diffusori elettrici collegati in serie, come i grani di un rosario. Emettevano un tappeto ritmico di tinniti, bip e fruscii che a tratti pareva fondersi e sparire nella camera ecoica dello stanzone; camminando se ne poteva seguire il variare dell’intensità, modulato dai riverberi in quel grande spazio vuoto. Avvicinandosi a ogni singola cassa si aveva la sensazione, dovuta alla particolare configurazione delle fonti di suono, che fosse spenta.
      In un angolo, su un gruppo di sedie, c’era un testo che iniziava così:

2.

     Le stanze del palazzo abbandonato erano piene di erbacce e vecchie lenzuola. Il palazzo non era in gran forma. Ci abbiamo messo dieci anni a ripulirlo. Abbiamo grattato le pietre. Abbiamo restaurato e ridipinto le splendide finiture architettoniche. Abbiamo sistemato porte e finestre. Poi eravamo pronti alla mostra.
      Gli spazi ampi e signorili erano pronti per i nostri scopi. Per prima cosa abbiamo scritturato lo strabiliante Uomo Numerato. Era numerato da uno a trentacinque, e poteva muovere ogni parte. Ed era docile ed educato, nonostante lo stress a cui lo sottoponeva il suo mestiere. Non mancava mai di dire “Ciao” e “Arrivederci” e “Perché no?” Eravamo felici di averlo in mostra.
      Poi abbiamo ottenuto la Donna Malmostosa. Ci dava le spalle. Era quello il suo stato d’animo. Diceva che era sempre stato quello, il suo stato d’animo. Il stato d’animo era quello da quando aveva quattro anni.
      Ci siamo procurati altre attrazioni – una Spada Canterina e un Mangiatore di Pietre. Abbiamo preparato biglietti e fogli di sala. Abbiamo approntato in giro dei secchi d’acqua in caso d’incendio. Abbiamo assicurato a delle catenine d’argento gli animali che ruggivano forte e quelli che puzzavano molto.

      Abbiamo fatto un provino a un’esplosione.

3.

      La lavagna luminosa e il fotogramma erano opere (o work-in-progress) di Sara Enrico. Mi sembrano particolarmente rappresentativi della sua opera, che spesso prende le mosse da un’esplorazione delle potenzialità latenti dei materiali e dei processi.
      Molte opere di Sara Enrico partono dalla materialità dei supporti della pittura – tele, colore. Cactus (2014) è una scultura tubolare alta un paio di metri, cilindro di cemento con un’anima metallica; ma quello che a un primo sguardo sembra un elemento architettonico in cemento armato si rivela il calco di una tela arrotolate. Untitled (giallo di cadmio- terra verde), 2012-13, è il calco in bronzo di un piccolo cubo di sbaffi e riccioli di pittura ad olio. Twins (2014) è una serie di wall painting monocromi ottenuti incollando la tela con il colore e quindi lasciandola scrostare; la parte scollata resta accartocciata in terra, come un calco in positivo del monocromo rimasto dove prima aderiva alla parete.
      È immediato vedere in opere come queste un discorso sulla pittura – un tentativo di tematizzare il processo artistico. Nello specifico, mi sembra un tentativo di metterlo a cortocircuito. Le opere appena descritte si compongono unicamente dei significanti della pittura, eppure esprimono significato in quanto sculture. Questa indagine sembra mirare a individuare quali siano i processi non autorizzati insiti nei materiali della pittura: delle potenzialità espressive che, pur essendo proprie del mezzo in quanto fatto fisico, non vengono tradizionalmente associate ad esso in quanto fenomeno artistico e culturale. “Pittura” è il nome sia di una roba appiccicosa che di una categoria dell’arte.
      Lo stesso tipo di esplorazione ambigua – rispettosa della lettera di un processo, sovversiva dello spirito – si verifica in un altro gruppo di opere incentrate, invece, sui mezzi digitali. Untitled (2012-2013) è una tessitura jacquard che parte dalla scansione di un tratto di tela da pittura; ma l’originale è stato spostato sul piatto trasparente durante il passaggio della lama luminosa, risultando in un reticolo di striature e glitch, chiazze più scure, errori casuali trasformati in componenti volute: bug che diventano feature. Similmente, RGB (skin) (2012-2015) è una serie di stampe su tessuto che partono da un analogo pattern scannerizzato. Ma prima di stamparli i pattern sono stati sottoposti a una serie arbitraria, capricciosa, lunghissima, di ricalibrazioni e filtri digitali – come a volte capita, giocherellando e improvvisando coi comandi di Photoshop – risultando in una complessità allucinatoria, e una perdita di qualità, tali da rendere impossibile ricostruire il punto di partenza.
      In entrambi questi casi Sara Enrico cerca di inserire una componente entropica, irreversibile, nella reversibilità assoluta che è costitutiva dei processi digitali. Come nel suo approccio alla pittura, il tentativo di forzare l’uso standard, consueto di una tecnica ha come risultato, al contempo, di estenderne la portata e di metterne in dubbio la sensatezza. Potrebbero essere processi digitali di tipo nuovo, un uso radicale della pittura: o non esserlo affatto.

4.

Per l’opening c’erano anche:
Un uomo dalla bellezza abbacinante
Un grande amuleto
Una speculazione dei tulipani
Il tasso fisso
Edgar Allan Poe
Una luce colorata
Ci siamo chiesti: cosa possiamo fare per migliorare la mostra?

5.

      Nicola Ratti è architetto e musicista; a una produzione musicale minimalista e sperimentale affianca con frequenza crescente delle incursioni, o collaborazioni, che afferiscono al mondo delle arti visive.
      Con Tilde (un trio elettro-acustico composto con Attila Faravelli e Enrico Malatesta) porta avanti da anni una esplorazione delle potenzialità sonore degli spazi e degli oggetti. Nel 2014 hanno sviluppato un kit di “aural tools”: oggetti semplici, quotidiani (magneti, sferette metalliche, un elastico, un diapason, una noce di polistirolo) utilizzati per analizzare le superfici di uno spazio in base a come producono, e trasportano, il suono. Nessuno di quegli strumenti è in grado, da sé, di produrre un suono, che deriva solo dall’interazione con uno spazio e un agente. La mappa di queste interazioni consecutive equivale a un calco delle potenzialità sonore di un ambiente.
      Questo tipo di ricerca, all’intersezione fra il suo background di architetto e la sua attività di musicista, prosegue in altri progetti personali di Ratti. In occasione di una mostra di Alessandro Roma, nello spazio Z2O, ha sonorizzato gli spazi della galleria collocando in ogni stanza una cassa su cui ha suonato per sei ore consecutive. I diffusori, sospesi in aria come sculture, erano sovradimensionati rispetto agli ambienti e ne rispecchiavano la scansione sfruttandoli come casse armoniche. Non erano una propaggine dell’impianto musicale, ma dello spazio.
      Allo stesso modo, l’impianto che tagliava diagonalmente il Laboratorio del Dubbio era un oggetto messo al servizio del luogo, non del suono. Il riverbero delle onde sonore era usato come un telemetro per saggiare le caratteristiche della stanza, nella modulazione percepita da chi la attraversava. La componente estetica o significante, l’idea di musicalità spariva del tutto in favore di un uso strumentale del suono in quanto cosa materiale.
      C’è un’analogia evidente fra la ricerca sul suono di Nicola Ratti e quella sulla pittura di Sara Enrico, che interagivano perfettamente nello spazio del Laboratorio, sovrapponendosi nell’attenzione del pubblico senza interferire l’uno con la fruizione dell’altro. Si tratta, in entrambi i casi, di una reinterpretazione di un mezzo espressivo che viene preso alla lettera e usato, in virtù delle sue proprietà materiali, per uno scopo diverso da quello a cui è tradizionalmente associato. In questo si può vedere un’esplorazione delle potenzialità del mezzo, ma anche una critica alla categorizzazione abituale: un po’ indagine meta-artistica, un po’ atto di pirateria.

6.

      Le performance fioccavano come se piovesse.
Abbiamo messo in scena la vendita della biblioteca pubblica.
Abbiamo messo in scena l’approvazione del budget da parte delle scimmie spaziali.
Abbiamo fatto le Novità Teologiche e la Musica Cereale (piena di uvetta di bontà) e non abbiamo trascurato le Donne Rifiutate che Sorgono dal Fondale Marino.

      Ci sono stati flebili applausi. Il pubblico si è stretto vicino vicino. Il popolo ha fatto la conta dei peccati.Abbiamo usato la Fuga dei Piccioni dal Palazzo.

7.

      Il critico e curatore Dieter Roelstraete ha scritto che, negli ultimi decenni, il mondo dell’arte contemporanea si è trasformato sempre più in un campo profughi per pratiche sperimentali. La sperimentazione musicale e filmica, la performance, la poesia concreta: ricerche che un tempo esistevano in continuità con impieghi più “mainstream” di un dato mezzo espressivo, ai margini del suo sistema economico e del suo pubblico ma comunque ad essi ancorati, se ne sono ritrovate espulse per mancanza di scalabilità, in un quarto di secolo in cui il settore culturale ha vissuto un’industrializzazione che solo ora comincia a mostrarsi insostenibile.
      Si possono immaginare varie ragioni per questa migrazione: la varietà intrinseca dell’arte contemporanea, che non pone alcun vincolo di mezzo o formato perché qualcosa ne venga considerato espressione; la sua struttura economica che si basa su un pubblico ristretto e facoltoso anziché su una dimensione in qualche misura di massa; la sua insaziabile curiosità verso qualunque idea o stimolo esterno (scienza, politica, altre arti), in cui può essere ravvisata una estrema apertura mentale ma anche un effetto del brutale ciclo di rinnovamento, parallelo a quello della moda, a cui soggiace nel tardo capitalismo.
      Quale che ne sia la ragione, questa migrazione c’è: e vale per Maya Deren come per Tino Seghal e Karl Holmqvist e Henri Chopin e Nanni Balestrini e Nicola Ratti – e cioè per pratiche prima identificate come video, coreografia, poesia, musica: per tutti i mezzi espressivi tranne uno: la prosa.
      È molto raro veder scardinata l’attesa di coerenza, tematicità e analiticità che si ha nei confronti di un testo. La prosa è il veicolo (o forse la strada o forse il combustibile) dell’argomentazione logica, e in quanto tale le si chiede di fare un lavoro da cui non si può prendere troppe libertà. I testi che riflettono su opere che mettono in crisi la propria forma, non dubitano, essi stessi, della loro. In occasione della mostra Ecstatic Alphabets, sulla sperimentazione letteraria, il MoMA ha pubblicato un catalogo ricco non di lipogrammi e componimenti paroliberisti, ma di saggi splendidi e chiarissimi, costruiti con gli stessi principi di Cicerone e Montaigne.
      Da un certo punto di vista questo può testimoniare semplicemente del doppio statuto della lingua scritta – diciamo sia come mezzo espressivo che come mezzo strumentale, proprio come una mostra di Jeff Wall avrà comunque bisogno di installation view. Da un’altra parte, la stessa necessità di questo doppio uso sembra implicare una forma di gerarchia: il fatto che uno dei due usi resti inevitabile sembra negare l’evoluzione di cui l’altro si vorrebbe testimone: non c’è stato superamento.
      Ma la prosa è anche il mezzo espressivo che uso io: e quindi potrebbe essere un’excusatio non petita, questa riflessione ai margini di un progetto collaborativo in cui, in quanto scrittore, non sono riuscito a collaborare del tutto. Ho contribuito all’evento del 26 febbraio traducendo un racconto di Donald Barthelme (La fuga dei piccioni dal palazzo, di cui si trovano estratti nei paragrafi pari di questo testo), un autore letteratura sperimentale con un interesse meta-linguistico che mi sembrava in linea con quelli di Sara e Nicola. E lo è: eppure ne sono rimasto, in qualche misura, scontento – mi sembrava di venir meno a una parte del mio compito, in quanto scrittore invitato a una mostra, che è anche quello di “tirare le fila”, di “introdurre”, di “spiegare”. Un testo è una cosa che salta fuori dalle ricerche su Google, è qualcosa a cui il pubblico si rivolge, entrando, per capire dove si trova. Con un racconto postmoderno avevo la sensazione di schivare una responsabilità.
      È l’esigenza che ho tenuto a mente quando scrivevo la prima versione di questo, di testo – il saggio critico di cui si trovano brani nei paragrafi dispari, un discorso analitico e strumentale. Però alla fine sono rimasto altrettanto insoddisfatto: perché nel parlare in modo così canonico e sterile di una ricerca sperimentale finiva per prenderne le distanze: fidandosi completamente del linguaggio che esse miravano a mettere in dubbio. Il risultato aveva qualcosa di peloso, e finiva per essere la propria confutazione, come un canto gregoriano che racconta la storia del noise o una retrospettiva di architettura brutalista in una reggia nuragica.

      E allora che si fa, eh?

8.

      È difficile mantenere vivo l’interesse del pubblico.
Il pubblico vuole nuovi prodigi su nuovi prodigi.
Spesso non sappiamo da dove tireremo fuori il prossimo prodigio.
Le idee strane non sono infinite.

      Lo sviluppo di nuovi prodigi non è come la produzione di cibo in scatola. Ci sono cose che all’inizio sembrano prodigi, ma quando ci si abitua non sono affatto prodigiose. A volte un costosissimo cacodemone alto trenta metri susciterà a malapena un frisson. A volte pensiamo persino di sbaraccare – di chiudere la mostra. È un pensiero che ogni tanto aleggia, per i corridoi e le stanzette dello spazio espositivo.

      Abbiamo appena scritturato un vulcano che sembra molto promettente…